Come diceva Friedrich Nietzsche ne “La gaia scienza”: «Il mondo è divenuto ancora una volta per noi “infinito”: in quanto non possiamo sottrarci alla possibilità che esso racchiuda in sé interpretazioni infinite».
È tempo di tornare a scrivere. Acclamato in quanto non ho scritto l’articolo della partita come piaceva, come si voleva, come si pensava, come ci si aspettava. Ma dico, a te, uomo del parquet, a te che mi leggi ogni lunedì, a te che non aspetti altro che il mio articolo per burlarti con gli amici di ciò che scrivo, dico a te: ma trovi che quando noi si perde, non scriva in merito alle sconfitte? Beh, ti sbagli e questo blog ha un archivio pieno zeppo di articoli inerenti le sconfitte. E allora? Cosa reclami? Devo rendere conto a te del mio umore di stamani? Hai capito la frase di Nietzsche che ti ho dedicato? Lo sai che Nietzsche si legge Nice?
Scrivere sul mio blog. Che forse era mio agli inizi, ma che ora è divenuto un blog da centodiecimila click, letto in tutta la regione Veneto, persino da Gino il Talebano, che non può più farne a meno e si arrabatta nel cercare di innervosirmi con commenti anonimi, con frasette senza senso e senza senno che si perdono nell’etere della censura, obbligata verso chi offende e/o non si firma.
Scrivere nel luogo che mi sono ritagliato, conquistato con il tempo e la fatica e con l’ardore del sentimento che decanto. Nel bene e nel male. Scrivere per fare chiarezza. Scrivere per analizzare, sintetizzare, cogliere l’essenziale, fissare quello che sfugge, fermare quello che fugge.
Scrivere per scrutare dentro me stesso e dentro il mio gruppo di compagni, che a lungo andare per forza di cose divengono anche amici, senza ipocrisie ed eliminare quello che di superfluo si è andato stratificando nel corso del tempo, mirare all’essenziale con cristallina lucidità e ritrovare il senso che era andato smarrito.
Scrivere per vivere. Vivere da uomo e da giocatore. Scrivere da giocatore e da uomo.
Scrivere per delineare una mia personale tavola dei valori, che non è necessariamente quella di tutti i lettori; scrivere per ritrovare i punti cardinali necessari ad orientare me stesso e a trasmettere ai miei compagni di squadra la forza, la tenacia, l’umiltà e il coraggio necessari ad affrontare la vita con tenacia. Non che sia facile, non che mi riesca sempre o spesso: ma ci provo. Dico a te, uomo del parquet, tu ci provi? Tu che hai giocato contro di me, tu che hai giocato insieme a me, tu che giochi ogni sabato con me, tu che non lo sai ancora ma un domani giocherai al mio fianco … tu … ci provi?
Scrivere, infine, per reagire alla barbarie, al vuoto totale di valori e al degrado morale, sociale, politico e culturale che ci sommerge in tutti i settori, dal lavoro, alla scuola, alle istituzioni, fino anche allo sport.
Scrivere come atto individuale e solitario di ribellione, se vogliamo come atto politico, nei confronti di una società che celebra l’ignoranza, l’egoismo sfrenato, l’arroganza e la sopraffazione come valori supremi. Una società in cui, per usare le parole di Sciascia, “gli ominicchi, i pigliainculo e i quaquaraquà” dominano incontrastati.
Sono rimasto per mesi quieto, perché scrivere quello che si pensa o che si prova non è giusto, non è facile, non è bello. Perché se taci tutti ti vogliono bene. Perché se non entri nel mio orticello, io lascio stare il tuo. Vivi e lascia vivere, scrive qualcuno, senza nemmeno sapere cosa significhi, manco fosse un fun dei Ghost. Vivas et relinquas.
Scrivere. Ma per chi? Per cosa? Per che?
Io scrivo su un blog, che è si il blog dei Cavalli di Razza, ma è un blog privato. Non è un sito ufficiale, bensì un blog ufficioso, con tanto di disclaimer pubblicato. Per entrare nel blog devi cercarlo in internet, sapendo cosa cerchi, devi volerci entrare, devi essere desideroso di leggere ciò che scrivo. Devi possedere quella curiosità che ti fa superare il fatto che non mi sopporti e che hai voglia di commentare le mie parole, giudicare il mio blog. Ma lo leggi. Tutti i santissimi lunedì. E non solo tu. Tanti come te. Tanti piccoli Talebani.
Adesso, ho deciso reagire, di ripartire da me. L’occasione della svolta, troppo a lungo nell’aria e rimandata, mi è stata offerta ieri sera da una partita di semifinale di Coppa Veneto che è andata decisamente male; da un corto circuito fisico e psichico di gruppo, un blackout che costringe all’errore anche sulla palla semplice, una situazione in cui il cervello ti va in pappa e lasci spazio all’avversario. Permettendogli di vincere un set lasciandoti a 8. Un avversario perfetto, che ha attaccato senza errori, che ha difeso alla morte, anche quando era nettamente sopra. Un avversario, che come ho chiaramente scritto, è l’indiscussa prima della classe, capolista di campionato e finalista di coppa. E non è un caso.
Ma questo mi impedisce di scrivere del loro pubblico o del pubblico di altre squadre? Questo mi impedisce di parlare di eventi in campo o fuori dal campo così come li ho vissuti io, magari anche in modo sbagliato, ma con i miei occhi?
No, nulle me lo impedisce e me lo impedirà mai. E allora lo fai. E rimani solo, a fare i conti con te stesso, in modo duro e spietato. Ma con la testa alta, perché non hai nulla di cui rendere conto a nessuno.
Sono sempre stato convinto del grande valore terapeutico che la vittoria nello sport ha sulla psiche del giocatore medio. Non è infatti un caso che questa società psicotica tenda proprio a rimuovere dalla mente la sconfitta, con appena un paio di risultati positivi. Per evitare che uno si fermi a pensare e riflettere su come, in pochi minuti, si potrebbe tornare a perdere. Perché nessuno ha mai vinto in eterno, non è possibile, il ciclo prima o dopo di chiude e dopo una splendida giornata di sole estivo, arriva prima o poi una buia e fredda nottata invernale.
La sconfitta ha in sé qualcosa di profondamente rivoluzionario e destabilizzante per un gruppo, un po’ come l’amore. Manda in frantumi tutto, ti sconvolge la mente e il cuore. Follia affiancare il concetto di sconfitta a quello dell’amore? No. E ben lo sanno coloro che hanno perso partite importanti, come una finale di Coppa o un partita dentro/fuori in campionato a fine stagione.
Per fuggire al vuoto della sconfitta ognuno ha il suo modo, io mi son rifugiato nel volley più di prima, così come altri si attaccano alla bottiglia. In tanti, in troppi lo fanno. In tanti mollano. E altrettanti parlano e basta, senza smazzarsi per il volley. Io mi sono stufato. Tu che parli cosa fai per il volley? Giochi? Bravo e poi? Cosa organizzi? In cosa dai il tuo contributo? Parole, parole, parole…
Sono nauseato dal chiacchiericcio petulante e inconcludente dei tanti che su Facebook cercano di esorcizzare il proprio vuoto esistenziale nascondendosi dietro frasi banali e stereotipate che girano, come quelle che si leggono anche stamattina sulle bacheche di alcuni; mi sono rotto le palle di una società la cui massima espressione di creatività ed espressione individuale è fare l’(I like) su Facebook di qualunque cazzata venga proposta dal primo imbecille, voci che urlano inascoltate nella tempesta. Mi sono fracassato gli zebedei. Zero creatività, zero sentimento, zero flavour. Reagite, fate sentire la vostra voce, metteteci qualcosa di vostro in ciò che scrivete.
Te lo apri il tuo blog? Vuoi scrivere di te, di ciò che senti, di ciò che vuoi, di ciò che provi, dei tuoi sentimenti sportivi e non, di come stai, di cosa sogni? Sei in grado di metterti in gioco? Ce la fai? Perché se non ce la fai, è inutile che giudichi e/o commenti ciò che faccio io. È inutile che passi le ore sul mio e fai salire i click, perché mi fai solo che un piacere. Amico del parquet.
Il tempo dei vari “Gino il Talebano” deve finire.
Concludo con le parole di Leonardo Sciascia in un suo celebre romanzo, Il Giorno della Civetta, dedicandole a te, Uomo del Parquet. Con la speranza che pure tu, da domani, inizi a metterci la faccia.
«Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, chè mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi… E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, chè la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre…»